La differenza tra cadere e volare – Racconto breve

Questo racconto è stato scritto nel 2017 circa, per un concorso di scrittura che non ho mai vinto. Però a me è piaciuto scriverlo, e spero che a qualcuno piaccia leggerlo. Buona lettura!

Quando verrai da me, i tuoi occhi saranno neri come la notte. Non porterai con te il ricordo di altri occhi in cui mi son specchiato, perché sei tu l’unica che voglio.

Sei la più corteggiata, la più seducente, la più maledetta delle dame. Sfiori il cuore dei tuoi spasimanti togliendo loro il fiato, ma ti concedi solo ai pochi audaci che sanno come invocarti.

Cosa posso offrirti, mia signora? Niente. Ho solo una carriera mediocre, un lavoro che odio e una famiglia che mi disprezza.

Ricordi ancora le poesie che cantavo per te da ragazzo? Trascorrevo le notti sveglio a suonare la chitarra, seduto sul davanzale della mia vecchia soffitta. Sotto di me, la città dormiva. Guardavo il cielo, contavo le stelle e ammiravo la luna. Credevo non esistesse gioia più grande.

Sognavo di fare il musicista, il poeta, o almeno lo scrittore. Sognavo di vivere come un equilibrista, a cavallo tra l’arte e la vita vera, ma alla fine i piedi mi tradirono e caddi in mezzo alle persone reali. La chitarra che amavo se ne andò per far posto a un computer che odio e che so a malapena usare. Mi piaceva pensare a me stesso come a un romantico bohémien, ma lo specchio che avevo costruito tra me e la realtà mi restituiva un’immagine inesistente.

Sai che lavoro faccio adesso? Il ghost writer. Il biografo di personaggi famosi, per la precisione. Sono diventato io stesso lo specchio di una realtà inesistente.

Ogni tanto il mio editore mi inoltra un’email con un allegato. Non serve neanche che lo apra, so già che cos’è. Si tratta delle bozze della biografia a cui dovrò lavorare. Vedessi come “scrivono” certi individui. A volte mi chiedo cosa ne sia stato della pubblica istruzione. Di solito mi metto a correggere le bozze solo dopo essermi fatto il segno della croce. Poi rivolgo un pensiero alla mia professoressa d’italiano, pregando che possa riposare in pace nonostante lo scempio che la gente fa della grammatica, e mi metto al lavoro.  Scrivo, riscrivo, riempio i buchi narrativi, limo, correggo, piallo, soffro, piango, rido istericamente e finalmente, dopo mesi di lavoro, il vestitino cencioso di Cenerentola diventa uno splendido abito da ballo che farà sognare i principi di ogni regno, ovvero i lettori.

Le vite di queste persone sono banali, te lo assicuro. Genitori divorziati, traumi infantili, un sogno da inseguire, delusioni amorose, niente che non abbia visto almeno una dozzina di volte, ma il lettore non si accontenta di storie banali: il lettore deve sentirsi teletrasportato in una nuova dimensione illusoria e luccicante, in cui la verità e la fantasia si fondono per creare un’esistenza abbagliante degna di essere invidiata. Il lavoro delle creature che vivono nell’ombra è donare la luce agli altri in modo che splendano come stelle. Quando ho finito di correggere le bozze, arriva l’inevitabile momento in cui devo dire addio per sempre a una piccola parte di me stesso. È strano scrivere dal punto di vista di un’altra persona. Ho raccontato mille vite in questi trent’anni, inventando storie meravigliose per personaggi e lettori ordinari. I libri che ho scritto io portano tutti il nome di qualcun altro. È come se non avessi mai scritto davvero. Prima ho iniziato a confondere ciò che è reale con quel che è inventato, poi ho finito per confondere i miei ricordi con quelli altrui. Ho vissuto le vite di ciascuno di loro e ho finito per perdere di vista la mia. È come se non avessi mai vissuto davvero. 

Vivo da solo in un piccolo attico. È tutto quel che posso permettermi, da quando mia moglie mi ha portato via la casa. Avevo preso un gatto l’anno scorso, nero come quello che avevo da bambino, ma non lo vedo da quando è iniziata la stagione degli amori. Vecchio dongiovanni spelacchiato, preferisce la compagnia delle gatte alla mia. Non lo biasimo, in effetti. C’è stato un tempo in cui anche io godevo della presenza delle belle fanciulle. Tutte si avvicinavano per sentirmi suonare, ammaliate dalla mia aria da ragazzaccio impunito. Molte se ne andavano quando finiva la mia canzone, ma c’era sempre chi restava. Alcune le portavo nel letto, ma non portavo mai nessuna nel cuore. Quando arrivava l’alba, tutte sparivano come l’eco di una pennata scandita da una mano un po’ esitante. Le avventure si allineavano come note su uno spartito. Adesso, invece, le mie orecchie conoscono solo il silenzio.

Oggi è il mio compleanno. Ormai sta per scoccare la mezzanotte, ma nessuno pare essersene ricordato. Mio figlio è andato a vivere con la sua ragazza all’estero e oramai non pensa più al suo vecchio padre.

Sessant’anni. Sono tanti, troppi, per una persona come me.

Mi siedo sul divano, fissando il televisore senza guardarlo. Senza rendermene conto, chiudo gli occhi e inizio a camminare lungo un precipizio. Il cielo è azzurro come gli occhi di un bambino, le nuvole sembrano zucchero filato. D’improvviso, una corrente d’aria mi spinge e mi fa cadere nel vuoto.

Mi sveglio di soprassalto, col fiato mozzo.

Ho deciso: questa sera voglio passeggiare da solo finché non ti trovo.

Il vento mi seduce con il suo soffio rinfrescante e mi rammenta il gelo delle tue braccia. Sto camminando da parecchio, ormai sono quasi arrivato. Il fiume è meraviglioso d’estate. Si sentono le ranocchie gracidare. Stasera mi sembra quasi che cantino per me. L’acqua scorre placida, l’erba e le canne si piegano a destra e a sinistra, come peccatori in balia di se stessi. Mi tolgo le scarpe e le poggio poco distanti dalla riva. Mi sfilo la maglietta e i jeans, li piego con cura e li poso per terra. Il fiume mi chiama, mi porterà da te.

Faccio un passo verso l’acqua nera, poi un altro ancora.

L’erba sotto i miei piedi è fresca e umida. Un brivido di freddo e di paura mi percorre la schiena.

Faccio un altro passo.

Un sommesso miagolio mi distrae. Mi volto. Due occhi gialli mi stanno fissando. Pare che vogliano scrutarmi l’anima. Mi guardano insistentemente, senza sbattere le palpebre, e poi si levano verso l’alto, oltre la mia testa.

Alzo gli occhi al cielo anche io: c’è la luna piena. È così rotonda e perfetta da farmi battere il cuore a mille. Non posso venire da te, non sotto questa luna così bella. Cerco quegli occhi gialli, ma mi rendo conto di essere da solo. Avrei voluto ringraziarli per avermi ricordato che dopo esser caduti si può ancora volare. Mi rivesto in fretta e corro verso casa, ridendo come un pazzo. Ci sono solo gli ubriachi in giro a quest’ora; sono ubriaco anche io, non di alcol, ma di vita.

Avrò le tue labbra un giorno, e di certo vincerò il tuo amore, ma non ora, non adesso. Forse potrei cercare la mia chitarra, deve essere da qualche parte in cantina. Credo di ricordarmi come si suona, devo solo ripassare gli accordi. Forse ti scriverò un’altra canzone, ma non venire da me se ti chiamerò, non mi ascoltare. Sono solo un povero biografo, ma ho ancora voglia di cantare…