KIRIA racconta: “L’assassino delle fiabe” – PARTE 5

Clicca qui per leggere la puntata precedente

Avrei potuto respingere quel bacio, ma non lo feci. Date le circostanze, Francesco aveva ragione: ormai eravamo tutti appesi al flebile filo della pazzia del killer delle fiabe. Se mi era concesso innamorarmi prima di morire, avrei potuto riuscirci solo con lui.
“Vuoi essere la mia ragazza?” domandò lui. “Mi aspettavo un ceffone, ma visto che non me lo hai dato devo dedurre che forse un po’ ti piaccio?”
“In realtà… in realtà sì” borbottai, senza guardarlo in faccia. “Solo che non pensavo assolutamente di interessarti! Cioè, guardami… sono un maschiaccio, sono riservata, per niente socievole, cosa mai posso offrire a un ragazzo come te?”
“Ma sei tu. Mi piaci perché sei così” ripose lui, strappandomi un sorriso e facendomi inaspettatamente arrossire.
Per un attimo riuscii a dimenticarmi di Alice, della Bella e la Bestia, del caos in cui eravamo precipitati. Mi sentii solo una ragazza emozionata che per la prima volta scopriva di piacere a un ragazzo.

Quando tornai a casa, passai davanti alla casa di Alice. Suonai il campanello. Con enorme sollievo, finalmente qualcuno mi rispose.
“Chi è?” disse una voce femminile, dall’altra parte del citofono.
“Alice?! Sono Marta!” risposi.
“Marta! Perdonami se non ti ho risposto in questi giorni, io e i miei genitori siamo tutti a letto con un brutto virus intestinale! Ho avuto la febbre fino a stanotte e non mi è proprio passato per la testa di rispondere a nessuno! Ti farei salire, ma potrei essere contagiosa!”
“Va bene, l’importante è saperlo… Rimettiti in forze! Ora vado a casa!”
“Aspetta!” disse Alice. “La polizia è stata qui. So cosa è accaduto oggi e so anche che avevano paura che fossi stata io, ma il medico ha confermato che io fossi malata…”
“Stai bene? Ne vuoi parlare?”
“C’è poco da dire… non ho il cuore a pezzi, stai tranquilla. Conoscevo Adamo da poco, me ne farò una ragione. Vai a casa, comincia a farsi tardi! Ci sentiamo!”
Alice riagganciò.
L’aveva presa fin troppo bene. Forse stava solo cercando di reprimere le sue emozioni, ma ci avrei pensato in un altro momento. La cosa più importante era che lei fosse viva.

La preside del liceo artistico decise di non chiudere la scuola. La classe di Adamo e quella dell’altra ragazza erano deserte. Francesco, seduto alle mie spalle, ogni tanto mi dava dei colpetti sotto la sedia per farsi notare. Non avevo ancora risposto alla sua proposta di mettersi insieme e ci teneva a ricordarmelo.
Qualche minuto prima che suonasse l’intervallo, uscii per procurarmi qualcosa da mangiare. Quando tornai in classe, vidi che Francesco non c’era.
Chiesi a Marcella e mi disse che era uscito anche lui subito dopo di me.
“Eppure non l’ho visto!” pensai, sgomenta. Un terribile sospetto si impadronì del mio cervello. Corsi per i corridoi, sperando di trovarlo, facendomi strada tra la gente. D’improvviso sentii un ragazzo gridare.
Corsi nella sua direzione. Un gruppo di persone mi impediva di vedere. Vidi molti distogliere gli occhi e altri chiamare i propri insegnanti. Mi feci strada. Francesco era sdraiato a terra, in una pozza di sangue. Qualcuno lo aveva bendato, gli aveva bloccato la bocca con una corda, gli aveva legato le mani dietro la schiena e gli aveva messo in testa un cappello verde con la piuma. Peter Pan catturato dai pirati. Proprio come aveva detto lui il giorno prima.