“Elvira”, Il racconto che pubblicai su un giornale vero

Vi svelo un segreto: un paio d’anni fa ho partecipato a un concorso indetto dalla rivista Confidenze, della quale mia madre è un’affezionata lettrice. Il concorso richiedeva di inviare un racconto di vita vera scritto in prima persona, e così ho scritto di una storia che mia mamma mi ha raccontato tanto tempo fa… Con mia sorpresa, il racconto venne scelto per essere pubblicato sulla rivista cartacea! All’epoca non dissi niente perché avevo usato il mio nome reale, e non lo pseudonimo, e col tempo mi dimenticai di questo racconto… ma adesso l’ho ritrovato, ed eccolo qui anche per voi! Mancano le modifiche che furono fatte in fase di editing, ma le differenze non sono poi molte. Fatemi sapere se vi è piaciuto!

PS: La storia che leggerete è stata tramandata dalla mia bisnonna materna Dina, nonché madre di mio nonno, che ebbe la sfortuna di ritrovarsi giovane durante gli anni della Seconda Guerra Mondiale. Anche se c’è qualche piccola modifica, è quasi tutto realmente accaduto (soprattutto la parte coi soldati tedeschi).

Elvira

Era la vigilia di Natale. Mancavano solo poche ore all’arrivo dei miei figli maggiori e delle loro famiglie. Il mio figlio più giovane e sua moglie stavano preparando la cena e io stavo cercando la tovaglia rossa dei giorni belli, ma non riuscivo a ricordare dove l’avevo messa. Mi misi a controllare ogni armadio della mia camera, ma di quella tovaglia non c’era traccia.

La mia unica nipotina femmina, Maura, si era messa in piedi sul letto, aveva indossato il vestito nero che avevo preparato per la serata e aveva cominciato a camminare sul materasso, rischiando di inciampare nella gonna a ogni passo. 

«Maura, togliti quel coso e vieni qui! Vediamo se riesci a trovare i tovaglioli rossi!» le dissi, divertita dalle sue strane movenze.

Maura si sfilò il vestito, scese dal letto e iniziò a frugare in tutti i cassetti, mentre io continuai senza successo a cercare negli armadi. Proprio nel momento in cui mia nipote sfilò il primo tovagliolo dal fondo del cassetto, una cartolina in bianco e nero iniziò a volteggiare fino a cadere a terra, con la parte del mittente ben in vista: c’era solo un nome, una firma: Elvira.

Maura raccolse la cartolina e la girò da entrambi i lati, poi mi guardò, con i suoi grandi occhi tra il grigio e l’azzurro, così simili a quelli di suo padre. 

«Chi è questa Elvira?» domandò.

Sentii l’orologio ticchettare all’indietro. I bombardamenti, i rastrellamenti, le sirene, i soldati tedeschi…

Mi lasciai cadere sul letto. Allungai una mano tremante verso la cartolina che la piccola mi stava porgendo. 

«Va tutto bene, nonna?» domandò lei, sedendosi accanto a me. 

«Era il 1944…» sussurrai, cingendole le spalle con un braccio.

«Vi troverete bene qui a Torriglia», disse Elvira, la padrona di casa. Una signorina di quaranta, quarantacinque anni, alta, snella, con due occhi verdissimi e tristi.

Mio marito mi strinse forte la mano. I miei due ragazzi presero di peso le valigie, con quelle poche cose che avevamo portato via dalla nostra casa di Genova, ed entrarono. Sospirai. Avrei voluto che ci fosse anche il mio primogenito, ma lui era stato catturato dagli inglesi, e nonostante fosse prigioniero se la stava passando abbastanza bene.

«La casa è in ottime condizioni, tranne la maniglia della camera da letto piccola… a volte tende ad aprirsi da sola! Comunque, se avete bisogno di qualcosa, sapete dove trovarmi», disse Elvira, con un sorriso, dirigendosi verso la sua casetta, proprio accanto alla nostra. 

«Aspetti!» le dissi, prima che chiudesse la porta. «Le andrebbe di… cenare con noi? Non abbiamo molto, ma vorremmo ringraziarla… è la prima persona che accetta di affittarci una casa dopo non so quanti rifiuti… Nessuno vuole mettersi degli sfollati in casa…»

La signorina Elvira mi guardò sorpresa.

«Accetto volentieri!» disse, dopo alcuni secondi di esitazione. «Mi fa… mi fa piacere un po’ di compagnia… e poi, voi mi sembrate delle brave persone… voglio dire… avete dei figli così giovani… mica potevo lasciarvi per strada, no? Se non ci si aiuta nemmeno nel momento del bisogno…»

Da quella sera in poi, Elvira ed io ci avvicinammo molto. Non le piaceva parlare di se stessa, ma i suoi occhi brillavano ogni volta che le narravo una storia del mio passato. 

Una sera, dopo aver sparecchiato, rimanemmo da sole a chiacchierare in cucina. Le raccontai di come mio marito ed io fossimo cresciuti in un piccolo paese toscano.

«Oh, la Toscana!» disse lei, con un sussulto. «Dicono che sia tanto bella… e come mai siete finiti qui in Liguria?»

Avrei potuto parlarne per delle ore, ma decisi di farla breve: dopo cinque anni di matrimonio, avevo già messo al mondo tre maschietti che un giorno sarebbero cresciuti e avrebbero avuto bisogno di lavorare, e lì a Gambassi, dove tutti chiedevano il credito e nessuno aveva mai i soldi per pagare in contanti, non ci sarebbe stato un futuro per nessuno… 

«E tu che mi racconti del tuo passato?» domandai.

La vidi arrossire.

«Niente… non ho combinato granché», disse, alzando le spalle. «La mia famiglia aveva un po’ di soldi da parte, e io li ho investiti comprando questa casa… per il resto… non c’è molto da dire…»

Elvira si stava torcendo le dita e aveva distolto lo sguardo dal mio.

«Che ne dici di aiutarmi a preparare una torta per i ragazzi?» dissi, all’improvviso.

«Oh, volentieri!» rispose lei, cambiando espressione. 

Da quel momento in poi, decisi di non chiederle più niente finché non fosse stata lei a voler parlare.

L’indomani, all’ora di cena, Elvira portò con sé un bel ragazzo alto, con i capelli scuri e gli occhi neri. Avrà avuto circa vent’anni.

«Lui è Mario, il figlio di una mia carissima amica», disse, mente il giovane mi stringeva la mano. Il viso di Elvira si fece cupo.

«Lo so che vi sto chiedendo molto, ma… potreste ospitarlo qui per qualche giorno? Ho sentito dire che… insomma, ci sono le pattuglie tedesche in giro…»

Un brivido mi percorse la schiena.

«L’ho sentito dire anch’io», sussurrai, stringendo i pugni. I miei ragazzi non avrebbero dovuto essere a casa, e probabilmente nemmeno Mario. Se mai li avessero trovati….

«Ti prego, Dina», disse Elvira, abbassando la voce. «La mia amica è sola al mondo… ha perso il marito, e non ha più i genitori. Questo ragazzo è tutto ciò che le rimane… trattalo come se fosse figlio tuo!»

Le promisi che avrei fatto il possibile, e portai Mario nella stanza in cui dormivano i miei figli. Lui mi guardò e mi sorrise. I ragazzi furono contenti di avere un coetaneo in casa con cui fare due chiacchiere, e mio marito non ebbe niente da obiettare.

Elvira, sollevata, tornò a casa sua.

I giorni trascorrevano uno dietro l’altro, ciascuno uguale al precedente. Avevo diversi abiti da confezionare, e a volte ero così concentrata sul mio lavoro da non accorgermi di quel che mi capitava intorno, eppure quel giorno l’abbaiare insistente di alcuni cani mi riscosse dai miei pensieri. Mio marito non era in casa, ma c’erano Mario e i miei figli… 

Sbirciai dalla finestra, scostando appena la tenda.

Tre ragazzi stavano marciando per il viottolo sterrato. Tre ragazzi in uniforme…

«Ragazzi! RAGAZZI!» gridai. Mario e gli altri comparvero subito dalla mia camera. 

«Che c’è?» disse il mio figlio minore. «Stavamo riparando una trave rotta che…»

«Venite subito con me!» dissi, interrompendoli. Afferrai i miei figli per un braccio e li trascinai nella loro stanza. 

«Mario, anche tu, devi venire qui subito…» dissi, tirando giù le coperte del letto matrimoniale. «Ora mettetevi qui, portate le ginocchia al petto e fingete di star dormendo!»

«Vuole farci passare per dei bambini?» sussurrò Mario, guardandomi con gli occhi spalancati.

«Fai quello che ti ho detto! Raggomitolatevi il più possibile!» sussurrai. In quell’istante, una mano pesante iniziò a bussare all’ingresso.

Tirai le coperte su fino alle orecchie dei tre ragazzi, chiusi la porta, mi buttai un po’ d’acqua fredda sul viso e andai ad aprire.

«Buongiorno!» dissi, sfoderando il mio sorriso più falso.

«Buongiorno», rispose uno di loro, il più alto e biondo dei tre. Avrà avuto circa l’età del mio figlio maggiore. 

«Che posso fare per voi?» domandai. 

«Fame, mamma!» disse uno dei tre. «Tu dolci? Pane? Vino?»

«Sì, sì, entrate! Entrate!» dissi io, sentendo le gambe farsi molli.

I tre ragazzi si tolsero la giacca e l’appesero all’ingresso. Un paio di scarpe scure da uomo era lì per terra, vicino alla porta.

«Scarpe», disse uno dei soldati. «Di chi?»

«Marito», dissi io, mostrando una foto su una mensola. Porsi la foto al soldato. Eravamo io e mio marito una ventina d’anni prima, nel giorno del nostro matrimonio.

«Bella mamma, bella!» disse il ragazzo, restituendomi la foto.

«Dolce! Hai dolce?» domandarono gli altri due.

«Sì, subito!»

Estrassi dalla credenza una torta al limone che avevo preparato poche ore prima. La portai in tavola, diedi loro tre piatti e tre forchette e iniziai a servire il dolce. Strinsi i denti. Le mani tremavano così tanto che per poco non rovesciai tutto per terra.

«Brava!» disse uno di loro, mangiando con le mani. «Vino? Hai vino?»

Controllai nella dispensa. Avevo due bottiglie di vino rosso bello forte. 

Presi tre bicchieri di vetro, li portai ai soldati e li riempii fino all’orlo.

Tutti e tre sollevarono i bicchieri in aria e scolarono il vino fino all’ultima goccia.

«Questo buonissimo!» disse il ragazzo biondo. «Ancora!»

Anche le labbra iniziarono a tremarmi. Mi morsi con forza le guance e versai dell’altro vino ai tre ragazzi.

«Hai figli?» domandò uno di loro, a metà del secondo bicchiere.

«Ne ho tre», dissi io. «Tre maschi!»

«Sono in guerra?» chiese il tedesco.

«Sì! Volontari!» mentii.

«Brava mamma! Brava!» rispose lui, servendosi da solo dell’altro vino.

I tre ragazzi iniziarono a parlare in tedesco e a ridere tra di loro. Mangiavano la torta e bevevano il vino come se io non fossi affatto presente. Mi sedetti sulla sedia accanto alla macchina da cucire. Una goccia di sudore mi cade lungo la tempia. Conficcai le unghie nei palmi della mano per impedirmi di gridare. In quel momento, un cigolio sinistro attirò l’attenzione dei tre soldati: la porta della stanza dei ragazzi si era aperta da sola…

Tutti e tre si voltarono.

«Chi dorme lì?» domandò il ragazzo biondo, alzandosi. Lo vidi avanzare con passo incerto verso la porta. Posò la mano sulla maniglia e spinse. Un raggio di flebile luce illuminò i capelli dei miei figli e di Mario. 

Mi misi in piedi e mi portai il dito indice davanti al naso.

«Shhh!» sussurrai. «Bambini! Dormono!»

«Ah, bambini!» disse lui, a voce bassa. 

Posò una mano sulla maniglia e chiuse la porta.

I tre soldati rimasero seduti al mio tavolo finché anche la seconda bottiglia di vino non fu completamente vuota. Se ne andarono ridendo e cantando. Mi salutarono sorreggendosi l’un l’altro e s’incamminarono verso la prossima casa.

Li guardai andare via, sorridendo loro e agitando la mano.

Quando furono fuori dal mio campo visivo, mi buttai sul mio letto. Il cuore prese a battere ancora più forte, e presto la stanza si fece buia…

Quando riaprii gli occhi, vidi il volto di Elvira. 

«Stai bene?» sussurrò. «Quando ho visto entrare quei tre soldati, io…»

«Sono andati via?» domandai, confusa.

«Sì! Sono andati via! Li ho visti ripartire!»

«I ragazzi… loro stanno bene?» sussurrai, massaggiandomi le tempie.

Elvira, sorridendo tra le lacrime, fece cenno di sì con la testa. «Sono ancora nel letto dove li hai lasciati tu, per sicurezza…»

Mi misi a sedere sul letto. Elvira piangeva e rideva insieme. 

«Grazie, grazie!» sussurrò, tra i singhiozzi… «Grazie per aver salvato mio figlio! Io non so se avrei avuto i tuoi nervi saldi…»

«Aspetta, cosa hai detto?!» domandai, sbalordita.

«Forse è il momento che ti racconti la verità…» disse lei, asciugandosi le lacrime.

Gli occhi verdi di Elvira, ancora rossi, vagarono verso la finestra.

«Non abitavo qui da giovane, sai? Abitavo in Toscana, proprio come te… in un paesino in provincia di Livorno… i miei genitori me lo dicevano sempre: non andare al porto, ci sono i marinai! Una ragazzina come te non deve frequentare certi posti! 

Non li ascoltai. Conobbi un ragazzo… aveva degli occhi neri stupendi… mi portò a ballare, mi portò sulla spiaggia… e poi partì, lasciandomi sola con il mio bambino in grembo. Gli scrissi tante di quelle lettere, ma tornarono tutte indietro… mi aveva dato un nome e un indirizzo falso!»

Non dissi niente. Mi limitai ad annuire in silenzio.

«Non sai in quanti posti sono stata… una ragazza nubile con un bambino! Te l’immagini la gente? Me ne andai prima che la pancia si notasse… Cominciai a dire in giro che Mario era figlio della mia defunta sorella, che suo padre era morto in guerra e che non aveva altri che me… Poi mi trasferivo, e allora inventavo una storia diversa… a te ho detto che era il figlio di una mia amica. È così che lo conoscono qui a Torriglia. Ormai è grande, riesce a guadagnarsi da vivere per conto suo, e la mia… come dire… rispettabilità non è compromessa, ma…»

Interruppi il racconto di Elvira. 

«Perché mi stai raccontando questa storia proprio adesso?» domandai. 

«Quando ho visto i tedeschi entrare qui dentro… tutti i momenti che ho passato con Mario fin dal giorno in cui l’ho stretto tra le braccia la prima volta… mi sono passati davanti agli occhi. Una vita di menzogne, una vita in cui non ha mai potuto chiamarmi semplicemente mamma come tutti gli altri ragazzi… mamma è una parola così bella… che colpa ne ho io se suo padre se n’è andato? Non voglio più vivere così, voglio poter abbracciare mio figlio come qualunque altra madre, senza aver paura di nessuno! Mi sono fatta una promessa: se Mario riuscirà a non farsi catturare dai tedeschi, allora smetterò di nascondermi! E visto che adesso è al sicuro… non voglio più mentire!»

Abbracciai Elvira forte forte, e iniziai a piangere…

Mi resi conto di star piangendo anche mentre raccontavo. Maura si era rannicchiata contro il mio petto e aveva posato le gambe sulle mie ginocchia. 

«E così alla fine Elvira raccontò a tutti di essere la mamma di Mario?» domandò, stringendomi la vita con il braccio.

«Sì, e fu fortunata: nessuno le disse niente di cattivo. Sai, le cose adesso sono diverse… ma quando ero giovane io, una donna con un figlio ma senza un marito… era una cosa ben strana!»

Maura prese la cartolina dalla mia mano, e la guardò di nuovo.

«Dici che anche Elvira adesso ha una nipotina a cui raccontare questa storia?» domandò la bambina.

«Può darsi!» le risposi. «E chissà… magari gliela sta raccontando proprio adesso…»