Il compagno di banco

Questo racconto era la mia entry per partecipare a un concorso al quale ho già partecipato in passato, ma il concorso è stato poi interrotto per motivi di forza maggiore. Spero vi piacerà! Questa è la storia di Francesco, uno studente universitario che sta per scoprire a sue spese che il mondo che si è costruito intorno non è bello e solido come credeva…

Quando i miei compagni ed io arrivammo in classe, l’aula era ancora mezza vuota.

«Sediamoci in fondo!» disse uno di loro. «Quel professore non fa che sputare mentre parla, non voglio stare in prima fila!»

Mi ritrovai seduto accanto a un ragazzo che conoscevo di vista, un certo Roberto.  Era un tipo sobrio, alto, con gli occhiali, il classico nerd che mi sarei aspettato di trovare in una facoltà di informatica… esattamente come me. Nonostante fossimo a dicembre inoltrato, indossava solo una leggerissima felpa verde con le maniche arrotolate fino al gomito. 

«Ciao», mi disse con un cenno, quando notò la mia presenza.

«Ciao», risposi sorridendo. Abbassai la testa per cercare il quaderno dentro lo zaino, ma i miei lunghi capelli sciolti continuavano a ricadermi sugli occhi.

«Tutto bene?» domandò lui, divertito.

«Sì, sì» bofonchiai, cercando di raccogliermi i capelli con una matita. «Oggi non riesco a trovare il mio stupido nastro!»

«Stai bene con i capelli sciolti, per oggi potresti lasciarli così.»

«G-grazie…» risposi, interrompendo i miei maldestri tentativi.

In quell’istante il professore entrò in classe: non si chiese come mai la prima fila fosse completamente deserta, ma andò dritto alla lavagna per scrivere le sue formule di algoritmica. Al termine della lezione scorsi velocemente i miei appunti e… beh, non erano certo i migliori della mia vita.

L’occhio mi cadde sul quaderno di Roberto; era decisamente più organizzato del mio. 

«Scusa, ehm… non è che po-potresti prestarmi i tuoi appunti?» balbettai.

«No, mi servono! Però te ne posso mandare una copia; mi dai il tuo indirizzo email?»

Alla fine diedi a Roberto non solo l’indirizzo, ma anche il numero di telefono. 

«Perfetto» disse lui, inarcando un po’ le sopracciglia. «Stasera te li mando!»

Lo guardai andare via e mischiarsi in mezzo alla folla, poi camminai verso la fermata dell’autobus insieme agli altri. Lucia mi aveva scritto un messaggino, ma non avevo avuto il tempo di risponderle. Accidenti a lei… mi aveva promesso di iscriversi a Informatica con  me, invece suo padre l’aveva fatta entrare alla facoltà di Economia della Bocconi. Odiavo avere una relazione a distanza, ci vedevamo talmente poco che mi sembrava di essere single.

Salii sull’autobus chiacchierando con due ragazzi, ma prima che mi ricordassi di aggrapparmi a una maniglia o a un palo l’autista fu costretto a inchiodare per via di un pedone fuori dalle strisce. Stavo per finire con la faccia contro uno dei sedili, ma una mano mi acchiappò per lo zaino e mi tirò indietro.

«Devi stare più attento… Francesco, vero?» disse una voce alle mie spalle. Mi voltai; era Roberto. Lasciai che mi trascinasse un po’ più vicino a lui e rimasi lì fino alla mia fermata. Il suo braccio era appoggiato al mio… non so perché, ma decisi di non spostarmi.

Quando raggiunsi il treno chiamai Lucia per chiederle com’era andata la sua giornata, ma venni accolto dalla segreteria telefonica. Infilai gli auricolari nelle orecchie e presi ad ascoltare una compilation che mi aveva fatto lei, piena di canzoni romantiche e super sdolcinate… decisamente troppo sdolcinate.

Arrivai a casa stanco morto, come ogni venerdì, mi tolsi i vestiti e mi lanciai nel letto sperando di cenare a breve. Mezzo addormentato com’ero, iniziai a controllare le email dal telefono… e ne trovai una di Roberto, con gli appunti che gli avevo chiesto. 

L’indomani, Lucia mi venne a trovare per trascorrere insieme il fine settimana. Ci sedemmo in salotto per guardare un film d’amore che aveva scelto lei, ma appena i miei genitori uscirono di casa misi in pausa il film e iniziai a baciarla sul collo.

«Che ne diresti di…» sussurrai.

«No, adesso no», m’interruppe, prendendomi il telecomando di mano e riavviando il film. «Magari dopo, o stanotte, mentre dormono tutti…»

Ingoiai l’ennesimo “no” con un sorriso falso; sapevo bene che quando Lucia diceva “dopo”, in realtà voleva dire “mai”. 

Sentii il telefono nella mia tasca vibrare; Roberto voleva sapere se i suoi appunti mi erano stati d’aiuto.

Verso i primi di gennaio, Lucia mi accompagnò al mio primo esame orale. Avevo almeno dieci persone davanti, così cercai un’aula vuota e mi misi a ripassare mentre Lucia faceva colazione. Dopo una decina di minuti, sentii una mano bussare alla porta socchiusa. 

«Posso entrare?» chiese Roberto, inarcando le sopracciglia. 

«Devi ripassare per l’esame anche tu?»

«No, sono qui solo per vedere che tipo di domande fanno.»

Roberto prese una sedia e si sedette vicino a me; sentivo il suo ginocchio premere appena contro il mio.

«Vuoi che ti chieda qualcosa?» esordì.

«No, no, devo solo leggere i miei appunti per l’ennesima volta…»

Rimanemmo entrambi in silenzio, ma sentivo che Roberto mi stava fissando. Forse avrei dovuto sentirmi a disagio? Si avvicinò ancora un po’ con la sedia e fece per aprire bocca, ma Lucia entrò in quel momento con un bicchierino di caffè in mano. 

«Una ragazza vuole sapere se ti andrebbe di fare a cambio con lei e dare l’esame adesso» disse.

Mi alzai in tutta fretta e corsi verso il professore.

Roberto ed io cominciammo a scambiarci messaggi quasi ogni giorno. Lucia non faceva domande, sapeva che quello era un compagno di classe e tanto le bastava. Eppure, non so perché, sentivo dentro di me l’assurda sensazione di starle mentendo.

Era febbraio inoltrato quando il secondo semestre ebbe inizio. Roberto ed io prendemmo a sederci vicini durante le lezioni e a volte andavamo a pranzo insieme, da soli o con altri compagni.

Un giorno, poco dopo aver finito di pranzare in una pizzeria, fummo colti alla sprovvista da un fortissimo temporale marzolino. Aprii l’ombrello portatile, ma non era abbastanza grande per entrambi; arrivammo in facoltà con i capelli bagnati, così entrammo nella nostra aula e ci sedemmo per terra, con le teste appoggiate al termosifone. 

«Lucia come sta?» domandò lui. «Sempre freddina?»

«Non parlarmene», ridacchiai. «Non è mai stata molto passionale, è vero, ma ultimamente è davvero fredda, e non solo fisicamente. Non ha mai voglia di parlare con me, dice di essere stanca per via dell’università, ma… comincio a pensare che sia solo stanca di me.»

«Non preoccuparti troppo, un ragazzo come te può avere chiunque! Se Lucia non sa come trattarti, tanto peggio per lei…»

Mi voltai e guardai Roberto negli occhi; si era tolto gli occhiali e vedevo il mio riflesso nelle sue iridi chiare. Sentii la sua mano posarsi dietro il mio collo e spingermi in avanti. 

“Alzati”, mi dissi. “Alzati, vattene, sparisci…”

Chiusi gli occhi e posai le labbra su quelle di Roberto. Dentro di me sperai che si scansasse e mi urlasse contro, invece… mi passò un braccio dietro la schiena e  mi strinse a sé più forte. Ci staccammo per pochi istanti e ci saremmo baciati ancora, ma udimmo le voci dei nostri compagni fuori dalla porta. Ci alzammo in piedi e ci mettemmo a sedere in seconda fila; durante la lezione, sentii le dita di Roberto intrecciarsi con le mie sotto il banco.

Quella sera chiamai Lucia e tentai di comportarmi normalmente, ma lei notò subito che qualcosa non andava; mi inventai di aver litigato con un professore e per qualche miracolo riuscii a sembrare credibile.

Da quel giorno in poi, Roberto Iniziò a venire in facoltà con la macchina; di pomeriggio, durante la pausa pranzo, ci fermavamo in qualche parcheggio isolato. Ogni volta avrei voluto scendere dall’auto e tornarmene a lezione a piedi, ma quegli occhi chiari che mi fissavano erano troppo da sopportare.

Una volta, mentre eravamo chiusi in macchina, il sole splendente si trasformò in una pioggia fitta e scrosciante che appannò tutti i vetri. Non so se fu il riscaldamento, oppure l’arrivo della primavera, ma entrambi ci ritrovammo senza maglietta e con i pantaloni slacciati.

«Vuoi…?» domandò Roberto.

Avrei voluto rispondergli di sì, che non vedevo l’ora, ma… scossi il capo.

Non potevo fare anche questo a Lucia, non era onesto. Mi rivestii in fretta e gli chiesi di accompagnarmi alla stazione. Roberto mise in moto, senza dire una parola, e mi salutò con un bacio sulla guancia.

Iniziai a parlare con Roberto solo in presenza di altri studenti; ignorai le sue email e i suoi messaggi e tentai di riagganciare i rapporti con Lucia. Lei divenne improvvisamente più dolce con me, allora perché piangevo ogni notte prima di addormentarmi?

Dopo qualche settimana Roberto smise di scrivermi e di rivolgermi la parola; di punto in bianco cessò anche di venire a lezione. Seppi dagli altri ragazzi che era andato a Londra per l’Erasmus e che sarebbe tornato solo dopo parecchi mesi; sentii una lacrima scendermi lungo le guance, ma mi nascosi dietro qualche ciocca di capelli. Da quel pomeriggio di dicembre in poi, li avevo sempre lasciati sciolti… anche se a Lucia non piacevano affatto.

Il semestre finì e trascorsi l’estate a casa dei genitori di Lucia. Preparai diversi esami per la sessione di settembre e quando tornai in facoltà mi sentii molto meglio: tra me e Lucia le cose andavano bene e le nuove materie mi piacevano  molto.

Un mattino di alcune settimane dopo arrivai a lezione un po’ in ritardo. Un ragazzo seduto vicino alla porta si voltò verso di me e mi sorrise, inarcando le sopracciglia.

Sentii le gambe cedere sotto il mio peso e arrancai verso il posto vuoto a fianco di Roberto. Quando era tornato? Feci una gran fatica a concentrarmi e a prendere appunti, invece Roberto sembrava completamente a suo agio, come se niente fosse mai successo. Nel giro di qualche giorno riprese persino a parlarmi come aveva fatto tanto tempo prima; io stetti al gioco, ripetei a me stesso che due chiacchiere innocenti non avrebbero portato a niente…

Due settimane dopo, mi ritrovai chiuso in macchina con lui. Mi illudevo che non ci fosse niente di male, ma quando dovetti respingere un suo bacio mi resi conto di aver commesso un grosso errore. 

Per la seconda volta, Roberto ed io smettemmo di parlarci e addirittura di salutarci. Mi concentrai con tutto me stesso sullo studio e su Lucia, ma in ogni momento libero rivedevo quegli occhi chiari e quelle sopracciglia che si inarcavano a ogni sguardo.

Durante l’ultimo anno di corso Roberto andò all’estero per un tirocinio, mentre io rimasi in facoltà finché non sostenni la tesi.

Poco dopo la laurea, mi trasferii a Milano con Lucia e iniziai a lavorare come programmatore presso l’azienda di suo padre. Lei doveva ancora sostenere l’esame da commercialista, ma entrambi guadagnavamo abbastanza da poter pagare tranquillamente l’affitto. 

Fu la madre di Lucia a scegliere tutti i mobili e gli arredi di casa. Onestamente trovavo orrendi quei mobili d’antiquariato scuri e quei divani in finta pelle che facevano cric crac quando qualcuno si metteva a sedere, ma che volevo saperne io di arredamento.

Speravo che finalmente Lucia ed io avremmo cominciato a passare più tempo insieme, a cucinare e a fare quelle cose che fanno le coppiette… invece lei non era mai a casa, e quando tornava non faceva altro che languire sul divano guardando la televisione. Dovevo cucinare, fare le pulizie e pensare pure al mio lavoro. Il padre di Lucia, non so bene perché, decise di mandarmi a casa per lavorare in smart working; gli orari di Lucia, invece, parvero raddoppiare da un giorno all’altro. 

Una donna in carriera ha bisogno dei suoi spazi, certo non può perdere tempo con un fidanzato bisognoso… Era tutto normale, dovevo solo sopportare col sorriso. 

Una sera decisi di fare una sorpresa a Lucia e andai a prenderla in ufficio per andare al ristorante; non cenavamo fuori da una vita, era arrivato il momento di rimediare. Chiesi di lei alla reception, ma il segretario mi guardò con occhi sgranati e borbottò solo: «La dottoressa è già uscita». 

«Ma vedo che la luce del suo ufficio è accesa», risposi io.

«Sarà la signora delle pulizie» ribatté lui, invitandomi a uscire, ma io lo aggirai rapidamente e mi diressi verso l’ufficio.

Aprii la porta e trovai Lucia avvinghiata a un cinquantenne coi capelli brizzolati, parecchio attraente e sicuramente più ricco di un programmatore con una misera laurea triennale. Rimasi per qualche istante fermo, a studiare la scena, sperando di essermi sbagliato, ma… no, era tutto fin troppo chiaro. Lucia si slacciò dall’abbraccio di quell’uomo e fece per inscenare la solita pantomima del “non è come sembra”, ma io non la lasciai parlare.

Chiusi la porta del suo ufficio, andai a fare le valigie, mi feci accompagnare alla stazione da un taxi e tornai a casa dei miei genitori. Trascorsi due mesi chiuso in camera mia guardando serie televisive e piangendo con la testa sotto le coperte del letto. 

Una notte, mentre i  miei dormivano, andai in cucina e trangugiai metà della bottiglia di vodka che mio padre teneva in freezer per i suoi colleghi. Mi svegliai all’alba, seduto al tavolo, con la testa appoggiata sul mio braccio sinistro. La vodka giaceva mezza rovesciata sulla tovaglia, proprio accanto al mio… telefono.

“Oh no…” pensai.

Avevo la testa dolorante e riuscivo a malapena a tenere gli occhi aperti, ma mi costrinsi a bere un bicchiere d’acqua e a leggere i messaggi sul mio telefono. Sentii un conato di vomito; non avevo scritto a Lucia… ma a Roberto. 

Scorsi la conversazione fino alla fine e dovetti sopprimere un altro conato di vomito. Roberto mi aveva dato appuntamento alla stazione, laddove mi aveva accompagnato tante volte con la macchina. Trascorsi quei sette giorni in uno stato di depressione ed eccitazione costante. 

Il mattino dell’appuntamento presi il treno e arrivai persino un pochino in ritardo. Scesi in fretta i gradini del sottopassaggio e quando arrivai all’ingresso… di Roberto non c’era alcuna traccia.

Aspettai diversi minuti, guardandomi bene intorno. Cinque, dieci, quindici minuti… ma niente. Presi il telefono per chiamarlo e chiedergli dove fosse, ma proprio in quel momento ricevetti un suo messaggio.

Perdonami se oggi non verrò da te, ma credimi, oggi avrai davvero un appuntamento. Ti ho mandato una mia amica che sicuramente ti potrà fare compagnia. Si prenderà cura di te meglio di quanto avrei potuto fare io. Ti voglio bene.

Prima ancora che potessi reagire, sentii una mano toccarmi piano la schiena.

«Scusa, sei Francesco?» domandò una voce femminile cristallina.

Mi voltai e vidi una ragazza con gli occhi azzurri e una splendida cascata di riccioli scuri. «Sono Isabella, l’amica di Roberto!» disse lei, porgendomi una mano morbida e piccola. «Piacere di conoscerti! Perdona il ritardo, non riuscivo a trovarti.»

Ricambiai quel sorriso candido e arrossii fino alla punta delle orecchie. 

«P-piacere mio», balbettai.

In quel momento, la rabbia che provavo per l’assenza di Roberto si dileguò. Forse era il momento di ripartire da zero? Non lo sapevo ancora, ma il sorriso di Isabella era talmente bello che per la prima volta, dopo settimane, riuscii a sorridere anche io.