Ricordi estivi arancioni

Norvy balzò sulla scrivania e si accomodò con garbo sulle mie gambe, facendo le fusa come un gatto quasi normale.

“I miei sensi felini mi dicono che sei assorta in un pensiero un po’ strano”, disse lui. “Ne vogliamo parlare?”

“Stavo ripensando ad alcuni momenti della mia infanzia”, risposi. “L’estate è finita, e questo per me significa varie cose: mandare in vacanza il rasoio, abbandonare i vestitini rosa e i sandali, comprare duecento borse dell’acqua calda e far saltare la corrente almeno un milione di volte tentando di accendere la stufa mentre la lavastoviglie è in funzione.”

“Non è a questo che stavi pensando” rispose lui, allungando le zampe davanti. 

“Se è per questo, tra poco sarà anche il mio compleanno.”

“Sì, è vero, ma ormai non te ne importa più molto. Ci saranno le elezioni giusto il giorno prima, probabilmente il 26 avrai altro a cui pensare … Insomma, vuoi dirmi o no che ti passa per la testa? C’entra qualcosa la sigla di quel gioco a premi che hai sentito dal corridoio?”

Annuii, accarezzando la coda a piumino di quel Norvy tanto perspicace. 

“Di questi tempi, tanti anni fa, sarei tornata a scuola. I giorni di scuola erano tutti uguali, sai? E questo andrebbe anche bene… ma quelli estivi…”

“Cosa avevano quelli estivi? Erano tutti diversi?”

Sorrisi, scuotendo la testa.

“No, veramente no. Erano tutti uguali anche quelli, il più delle volte. Ripensavo all’inconsapevole tristezza di vedere un giorno d’estate che si spegne. Un giorno lungo, in cui mi alzavo tardissimo, e non avevo nemmeno un computer per contattare il mondo esterno. A quei tempi (ma senti come parlo!) i bambini che stavano a casa avevano solo i giocattoli e la televisione.”

“Solo perché tu non avevi la PlayStation o il GameBoy”.
“Ah, no che non li avevo! Erano cose da maschi. Una cosa chiamata GameBoy non poteva comprarla una femmina. Insomma, ricordo i pomeriggi seduta alla televisione, a vedere tutti i cartoni di Bim bum bam fino alle sei del pomeriggio. Poi il sole piano piano si accendeva di arancione e colorava tutta la cucina coi suoi raggi più grossi e meno caldi. Allora andavo in cucina e guardavo mia mamma iniziare a preparare la tavola. A volte, quando era ancora presto, giocavamo insieme a carte, a dama, a memory, a qualunque cosa ci andasse di fare prima di apparecchiare. E poi arrivavano gli stramaledetti giochi a premi.”

Norvy alzò il muso, socchiudendo appena gli occhioni gialli.

“Qualcosa mi dice che non vai matta per certi programmi”, bofonchiò.

“Sei eufemistico! Quei programmi del cavolo sancivano la fine di ogni divertimento pomeridiano, mi portavano solo alla consapevolezza che anche quel giorno non avevo fatto niente che valesse la pena di essere ricordato.”

“Capirai, eri solo una bambina. Che dovevi fare, scoprire la cura per la depressione?”

“Beh, di certo quei programmi erano la cosa più lontana da una cura per la depressione che avessi mai visto! Pieni di musichette, di jingle, di ragazze sconosciute che ballavano mezze nude, di presentatori visti e rivisti mille volte. E sai qual è la cosa peggiore?”

“Suppongo che me la dirai comunque.”

“Che ci ho messo anni per dare un nome a quella tristezza tinta d’arancione che sentivo!”

“E adesso di che colore è la tua tristezza?”

Tacqui, chiedendomi se conoscessi la risposta.

“Di certo non è rosa”, dissi alla fine. “Il rosa mi fa sentire bene.”

“E allora circondati di oggetti rosa e non badare più ai jingle dei giochi a premi!”

Norvy balzò via dalle mie gambe e sparì in corridoio.