CAPITOLO 1 – La soffitta | La stanza grigia

“La stanza grigia” è un il mio primo fumetto da sceneggiatrice, pubblicato con Upper Comics e in vendita in tutte le fumetterie (su ordinazione), online e su Amazon. La storia che state per leggere è quella da cui il fumetto è stato tratto, ma chi ha già letto l’opera cartacea capirà presto che ci sono stati degli enormi cambiamenti! Certo, l’inizio è molto simile, ma… il resto non c’entra proprio nulla! E volete sapere la verità? Il vero finale, quello del fumetto, è decisamente meglio!

Cercai di aprire gli occhi. Le palpebre erano pesantissime… una luce abbagliante mi costrinse a richiuderli.

Ahhh!” gridai, cercando di ripararmi il viso con le mani, ma le mani… c’era qualcosa che le teneva bloccate.

“Oh, caro, finalmente sei sveglio!” disse una voce femminile… una voce squillante, fresca, una voce di… ragazza? “La luce è troppo intensa, vero? Scusami, l’abbasso subito…”

Finalmente ero in grado di scorgere qualcosa. La stanza era immersa nella penombra, l’unica cosa che riuscii a vedere fu… il volto di una ragazza che mi sorrideva. Aveva dei lunghi capelli neri e lisci, raccolti in una coda, e sorrideva… ma che sorriso era quello? Quanti denti aveva? L’avevo già vista da qualche parte? Chi era? come mai eravamo insieme in quel posto?

“Chi sei? Dove… dove mi trovo?” biascicai.

“Sei nella mia soffitta, caro!”

“Perché sono nella tua soffitta?”

“Perché? Per conoscermi meglio, caro!”

“Ah…” sussurrai.

“Non vuoi sapere perché dovresti conoscermi meglio?”

Non riuscivo a tenere gli occhi aperti.

“Uh? Perché dovrei?”

“Perché sarai presto il mio fidanzato, caro! E in quanto mio fidanzato, devi imparare a conoscermi meglio di chiunque altro!”

“Caro?” sussurrai. “Fidanzato?”

Prima di udire la risposta, sprofondai di nuovo nell’oscurità.

Aprii gli occhi. Vidi un soffitto grigio proprio sopra la mia testa.

Cercai lo smartphone con la mano, ma non lo trovai. Mi voltai verso il comodino, e… non c’era nessun comodino. Non ero affatto in camera mia.

Ero in una stanza completamente grigia, abbastanza piccola, con il soffitto basso. I muri, i pavimenti, il letto sul quale mi trovavo… tutto, tutto era della stessa tonalità di grigio. Il grigio era il mio colore preferito, ok, ma lì ce n’era davvero troppo…

Non c’erano finestre, solo una lampada solare senza interruttori che illuminava a giorno quasi tutta la stanza. Mi alzai e toccai ogni singola parete. Non c’era traccia di finestre o passaggi di nessun tipo. Non c’era niente, niente di niente. Erano quattro dannate pareti grigie e vuote. In un angolo c’erano un gabinetto, un lavandino e una piccola doccia. Lì accanto, qualcuno aveva messo un tavolino di metallo grigio e una sedia del medesimo colore. Solo in quel momento mi resi conto che persino io ero completamente vestito di grigio.

Sentivo già il cuore iniziare a battere più forte, quando finalmente notai che proprio in mezzo alla stanza, appena appena visibile, c’era una botola che dava verso il basso. C’era un piccolo foro nel pavimento, forse una serratura. Cercai qualcosa in giro per la stanza con cui far leva e iniziai aprendo il cassetto della scrivania. C’erano solo un cucchiaio di plastica e un bicchiere di carta. Nient’altro… anzi, qualcos’altro c’era. Una maglietta e un paio di pantaloni grigi, uguali a quelli che indossavo. E dei calzini… oh, un paio di mutande. Tutto della mia misura. Guardai vicino al lavandino, se per caso non ci fosse un rasoio… ma no, solo una saponetta bianca e un piccolo asciugamano. Uno spazzolino con il manico largo, un tubetto di dentifricio… Un accappatoio appeso alla parete… appeso con… uffa, un gancio di plastica. Non c’era un singolo oggetto nella stanza abbastanza sottile o appuntito da entrare in quella serratura.

Mi misi a picchiare alle pareti, al pavimento, finché i pugni non iniziarono a farmi male. Allora iniziai a tirare calci e pestare forte, ma ero senza scarpe, e dovetti arrendermi al dolore. Con le mani e i piedi indolenziti, mi gettai sul pavimento a pancia sotto.

“FATEMI USCIRE! FATEMI USCIRE!” gridai. Nessuna risposta. Nessun rumore, niente di niente.

“Vuoi vedere che questi muri sono insonorizzati?” pensai.

Mi spogliai completamente. Non c’erano specchi in cui potersi riflettere. Mi guardai nel vetro della doccia… era molto pulito e lucido, rifletteva abbastanza bene. Non avevo segni di violenza sul corpo, non mi faceva male niente, tranne le nocche e i piedi. Non avevo la febbre, non sentivo freddo né caldo. Chiunque mi avesse messo lì dentro, non aveva intenzione di farmi del male. O almeno, non fino a quel momento…

Aprii il getto della doccia. Dopo alcuni istanti, l’acqua diventò calda e iniziai a insaponarmi. La saponetta sapeva di lavanda. Il mio profumo preferito.

Mi lavai per alcuni minuti, e improvvisamente mi sentii meglio. Mi avvolsi nell’accappatoio grigio e lo annusai; anche quello sapeva di lavanda.

Mi asciugai i capelli alla meglio con il cappuccio dell’accappatoio, poi mi avvicinai alla lampada solare, e mi accorsi che da vicino emanava parecchio calore. Mi piazzai lì davanti, e i miei capelli presero ad asciugarsi molto in fretta. Li sentii arricciarsi un po’ sotto le dita. Mi succedeva sempre, quando non usavo il phon.

Il pavimento sotto i miei piedi nudi era tiepido. Anche le pareti a dire il vero.

Dopo essermi rivestito, mi sedetti sul letto. Era un bel letto matrimoniale. Iniziai a lisciare le lenzuola, sprimacciai i cuscini, piegai con cura le coperte. Mi sedetti sul bordo del letto e fissai i miei piedi. Non ricordavo niente di niente… ricordavo di essere per strada, di star buttando via la spazzatura in un vicolo vicino a casa, e poi… niente. Buio completo. Potevano avermi rapito gli alieni, per quanto ne sapevo.

Rimasi lì, immobile, con lo sguardo fermo, per un minuto o forse per mezz’ora.

“Mi sveglierò”, pensai. “Anzi, forse è solo uno scherzo, un prank, un esperimento sociale… qualcuno spunterà fuori e mi dirà di salutare gli spettatori…”

A un certo punto sentii un suono impercettibile provenire dal pavimento. Mi voltai. La botola che avevo notato si stava aprendo. Mi alzai di scatto, mi aggrappai alla botola, cercai di sollevarla, ma un dolore pungente mi colpì sul fianco e mi ritrovai per terra, incapace di muovermi.

“Oh, caro, non pensavo che mi sarebbe servito!” disse una voce femminile.

Ruotai i bulbi oculari verso di lei. Una ragazza con i capelli neri, della mia stessa età… la conoscevo… eravamo nella stessa scuola.

La vidi posare qualcosa sulla scrivania. Poi si chinò su di me, mi sollevò la testa dal pavimento e se la mise in grembo.

“Scusami tanto per aver usato il taser”, sussurrò, accarezzandomi i capelli. “Non avrei voluto, mi hai solo spaventato, eh… oh, ma guarda! Credevo che avessi i capelli lisci! Beh, così sei anche più carino!”

La ragazza sorrise e mi aiutò a sedermi sul letto.

Prese dalla scrivania un vassoio grigio di plastica rigida e me lo porse. C’erano un piatto di pasta al ragù, un paio di fette di roastbeef con le patate al forno e una fetta di torta al limone…. tutti i miei cibi preferiti, caldi appena fatti.

“Non ti ci abituare, però!” disse lei, senza smettere di sorridere. “Ogni tanto devi mangiare anche la frutta e la verdura, intesi?”

“Ma chi sei?” domandai. “Perché sono qui?”

“Mangia caro, che si fredda” rispose lei.

“Ti prego, voglio sapere come sono finito qui dentro!”

“Ho detto di mangiare, che si fredda” disse lei, perdendo il sorriso.

Infilai la forchetta nel piatto di pasta, infilzai un paio di penne e me le portai alla bocca. Dovetti ammettere a me stesso che erano davvero buone. Il viso della ragazza si tranquillizzò. Appoggiò la testa al muro e continuò a guardarmi mangiare senza smettere di sorridere.

Fu strano mangiare con qualcuno che mi fissava così, quasi senza sbattere le palpebre. A un certo punto la vidi avvicinarsi al mio viso con un fazzoletto di carta. Mi venne da ritrarmi, ma lei insistette.

“Voglio solo pulirti, caro!” disse, quasi offesa. “Ti è andato del ragù sulla guancia!”

Finii per lasciarla fare. Tornò immobile seduta al mio fianco e mi guardò finire il pranzo, senza dire una parola.

Cercai di guardarla meglio. Era vestita esattamente come me, stessa maglietta e stessi pantaloni grigi, solo che su di lei sembravano più larghi e ampi, visto che il suo fisico era parecchio minuto ma abbastanza muscoloso, da quel poco che vedevo delle braccia.

“Ma tu non mangi?” domandai, giusto per spezzare un po’ il silenzio. Forse era tutto avvelenato?

“Angelica” rispose lei.

“Come, prego?”

“Angelica è il mio nome. Angelica Merisi.”

“Merisi… ma sì, ho capito chi sei… sei la ragazza nuova, quella che l’anno scorso frequentava il classico!”

“Sì”, rispose lei sorridendo. “Ma tu puoi chiamarmi Angelica.”

Le sue guance diventarono più rosse.

“O-ok… se ci tieni…”

“Sì, ci tengo molto!” disse lei annuendo.

Quando ebbi finito anche la torta, Angelica prese il vassoio dalle mie mani e lo posò sul pavimento. Era di spalle… le afferrai un braccio e cercai di sollevarla e immobilizzarla, ma non so come lei mi colpì allo stomaco con una gomitata che mi fece inginocchiare a terra.

Le afferrai una caviglia e la strattonai. Angelica finì sdraiata sul pavimento, per poco non si era ficcata una forchetta in una guancia.

Mi diede un calcio in faccia con la gamba libera e rotolò sul pavimento, rimettendosi in piedi. Anche io ero riuscito a rialzarmi.

“Una ragazza non può battermi, per quanto possa essere forte io lo sono di più! Sono più alto, più grosso e…”

Angelica si inginocchiò di scatto. L’attimo dopo, ero faccia a terra con le mani intorno ai gioielli.

“Non farlo più, caro!” disse Angelica, aprendo la botola. Ancora quel sorriso stampato sulla faccia. “Non voglio essere costretta farti male! Tornerò stasera per la cena!”

“Aspetta!” gridai. “Mi annoio qua dentro, lasciami almeno qualcosa da fare!”

“Troppo presto”, rispose lei. La botola si richiuse sulla sua testa. L’ultima cosa che vidi fu il suo sorriso da Stregatto.

Mi ritrovai da solo in quell’eterno grigiore. Grigio. Ovunque guardassi vedevo solo grigio. Era quella la mia esistenza ormai? Perché quella ragazza mi aveva confinato in quella specie di soffitta? Forse intendeva avvelenarmi piano piano? O forse voleva solo….

Un brivido mi percorse la schiena. Non avevo nemmeno il coraggio di pensarlo.

Voleva solo… tenermi tutto per lei? Voleva rendermi il suo schiavo del sesso? O magari voleva solo provare il brivido di possedere una persona? Come se fossi un animale domestico?

La polizia… loro mi avrebbero trovato. I miei genitori lo sapevano che non era da me sparire così senza dire niente… o forse lei aveva trovato il modo di giustificare la mia assenza? In fondo era appena finita la scuola, avrei potuto essere in vacanza con…

Gli amici! Gaetano e Antonio mi avrebbero cercato! A meno che… non avesse giustificato la mia assenza anche con loro. Forse ai miei amici aveva detto che ero in vacanza con i genitori, e ai miei genitori che ero in vacanza con gli amici. E non avevo nemmeno lo smartphone con me…

Mi passai una mano sul viso. Stavo pensando un mucchio di sciocchezze. Non c’era nulla di cui preoccuparsi, era di certo uno scherzo, un esperimento sociale, un…

Fissai la botola. Non vedevo l’ora che arrivasse l’ora di cena.

“Come mai conosco il nome di questa tizia?” mi domandai. Passai in rassegna quel poco che ricordavo della mia vita dentro le mura scolastiche. Angelica mi era familiare… ma perché? E chi mi aveva detto che aveva frequentato anche il liceo classico?

Riflettei per qualche istante.

Lei. Me l’aveva detto proprio lei. Il primo giorno di scuola.

Quella mattina aveva i capelli sciolti e gli occhiali… Mi batté delicatamente una mano sulla spalla mentre aspettavo quei deficienti di Antonio e Gaetano. Mi voltai, le sorrisi e le chiesi se potevo esserle d’aiuto. Lei, senza nemmeno guardarmi negli occhi, mi chiese dove fosse la segreteria. Io fui tanto scemo da portarcela. Avrei potuto dirle “gira a destra in fondo al corridoio”, ma no, ce l’accompagnai. Durante il tragitto, mi disse come si chiamava, mi parlò della sua vecchia scuola, e mi ringraziò almeno due volte. Il tutto in… quanto tempo? Forse due minuti? Non ci pensai proprio più a lei. La incontrai qualche settimana dopo uscendo dalla palestra. Le dissi “ciao” solo perché mi aveva salutato prima lei e non mi andava di passare da maleducato. E forse l’avrò salutata un altro paio di volte da lì alla fine dell’anno. Possibile che le fosse bastato questo per fissarsi così tanto con me?

Mi misi sul pavimento e iniziai a fare i piegamenti, ma mi resi conto di essere troppo pieno, quindi mi rialzai e mi misi a cantare. La mia voce era pessima, la mia respirazione sbagliata, ma almeno non c’era più quel silenzio assordante. Cantai tutte le canzoni dei Linkin Park che conoscevo, persino Adam’s song, che di solito non cantavo mai perché era troppo triste, ma alla fine sentii la voce iniziare a farsi roca…

Le prove. Non avrei potuto andare alle prove.

Antonio e Gaetano mi avrebbero aspettato, telefonato, insultato… e io non avrei avuto nessun modo per mettermi in contatto con loro…

Tornai per terra, mi sdraiai sulla schiena, feci dieci addominali. Mi tirava tutto, mi sarei fatto male se avessi continuato. Mi misi a sedere. Provare la meditazione? Mai praticato yoga prima… peccato, dicono che lo yoga aiuti a rilassarsi… mi buttai a faccia in giù sul letto. Avrei voluto solo dormire, dormire e dormire, ma quella luce del cazzo non me l’avrebbe permesso troppo facilmente. E se poi fosse arrivata la notte e io l’avessi trascorsa completamente sveglio? Ma soprattutto: come facevo a sapere che era notte? Il pranzo mi era appena arrivato, ma questo non voleva dire che fosse davvero ora di pranzo.

Mi rimisi a cantare. La gola doleva, e allora io bevevo dal lavandino, e cantavo, e bevevo, e cantavo… facevo una pausa per pisciare e cantavo, e bevevo, e cantavo….

Mi sdraiai sul letto, quasi senza più voce.

Sentii il suono della botola aprirsi.

Angelica, con un vassoio per me. Lo posò a terra. La vidi tornare giù per un istante e quando finalmente la rividi spuntare, aveva in mano un sacchetto di stoffa.

“Ti ho portato un po’ di biancheria pulita”, disse. “Calzini, magliette, e… hihihi… anche delle mutande!”

Sorrisi.

Perché diavolo stavo sorridendo?

Angelica mi porse il vassoio. Spaghetti al pomodoro, roastbeef con la lattuga, una macedonia di pesche e fragole. 

Mi sedetti sul letto e attesi che lei si sedesse accanto a me.

Assaggiai gli spaghetti; erano caldi e al dente, e la salsa sembrava fatta con i pomodori freschi.

“È… buono…” mi azzardai a dire.

Gli occhi di Angelica si spalancarono, le sue guance arrossirono.

“Oh, come sono felice!” disse, sorridendo con la bocca aperta.

Ridacchiai nervosamente.

“Senti… Angelica… mi dici come mai sono qui?”

“Non è un posto bellissimo?” rispose lei. “Non può accaderti nulla di male qui dentro! È tutto in ordine e pulito! Ci sono io che ti preparo tre buonissimi pasti al giorno, fatti in casa con tanta cura, e poi è tutto grigio, il tuo colore preferito!”

“Grazie, ma… io vorrei uscire!”

“Ma certamente! Quando sarà il momento uscirai, e io verrò insieme a te! Oh, sarà bellissimo!”

“E quando sarà?” domandai, sentendo il cuore battere più forte.

“Dipende solo da te”, rispose lei, passando il dito sul bordo del mio vassoio.

“Cosa devo fare?” domandai.

“Non posso dirtelo… hihihi…” ridacchiò lei. “Ma ti prometto che un giorno te lo dirò!”

“Ma tu lo sai che io non voglio stare qui dentro, vero?” domandai, pregando di non farla arrabbiare.

“Certo che lo so”, disse lei, smettendo di sorridere. “E credimi se ti dico che saperlo mi spezza il cuore. Ma presto le cose cambieranno, sì, e allora vedrai che andrà tutto bene!”

I suoi occhi ripresero a brillare. Io continuai a mangiare, e lei non disse più una parola.

Quando ormai stavo finendo la macedonia, Angelica si alzò dal letto e mise nel cassetto la biancheria pulita.

“Vedo che non ti sei lavato i denti” disse, guardando il tubetto del dentifricio ancora intonso. “Lavateli, per piacere. Dopo ogni pasto! Domani cercherò di portarti qualcosa per la colazione, ok?”

Annuii, senza dire nulla.

Angelica si era già chinata in basso per aprire la botola, ma poi vidi le sue guance farsi incredibilmente rosse, e si voltò verso di me.

“Posso… posso darti un bacio sulla guancia?” mi chiese.

Una ragazza così carina… e così psicopatica…

Decisi di assecondarla.

“Certo”, dissi, sedendomi per terra vicino a lei. Sbirciai dentro la botola, intravedendo le scale.

“Se l’assecondo magari inizierà a fidarsi di me, così abbasserà la guardia e mi permetterà di uscire…” pensai.

Angelica chiuse gli occhi e premette appena le labbra contro la mia guancia.

“Oh… cominci a pungere…. ehehehehe!” balbettò, e senza guardarmi negli occhi si dileguò nel pavimento.

Avevo ragione io. Mi teneva lì solo per avermi tutto per sé. E probabilmente mi avrebbe fatto uscire solo se avessi acconsentito a diventare il suo ragazzo… ma non avrebbe potuto semplicemente chiedermi di uscire o che so io?

Mi sentii improvvisamente più tranquillo. Forse sarei uscito di lì prima del previsto…

Aspetta. No, non è vero che non ci avevo più parlato dopo quella volta della segreteria.

Il giorno degli orali…

Sì, sì, è vero… ma caspita, le avevo solo detto “in bocca al lupo” passando davanti alla sua classe per caso. Angelica era lì che aspettava il suo turno, aveva in mano un libro e nonostante una lieve abbronzatura era proprio pallidissima… mi ringraziò e arrossì fino alla punta delle orecchie.

💕 FINE DEL  PRIMO CAPITOLO! 💕

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